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lunedì 25 marzo 2024

LA SELVA OSCURA



Parlare della selva oscura e, quindi, dell’inizio del canto primo della Commedia non è propriamente facile, poiché, già da una prima lettura, essa ci appare molto composita e polisemantica. Già dall’inizio, cioè, appare subito chiaro che non abbiamo a che fare con una foresta reale, ma con un simbolo dai molti significati.

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai1 per una selva oscura,

che la diritta via era smarrita.

                                                 

                                                      (Inf. 1, 1-3)

 


Risulta, infatti, strano vedere che, mentre quest’uomo camminava, si ritrovò improvvisamente sul limitare (o, addirittura, all’interno) di questa spaventosa foresta, solo e al buio. E per quale bizzarro motivo ciò sarebbe avvenuto?

 

 

tant’era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai

                                                  

                                                         (vv. 10-12)

 

Tant’era pien di sonno. «Pien di sonno»? Perché? Non certo per aver alzato il gomito in qualche bettola e, dopo, essersi messo (o rimesso) in cammino.


Si è parlato, spesso, a questo proposito, di “sonno della ragione”, ma, forse, non si è spiegato bene cosa esso sia e cosa procuri nell’uomo. Si è detto che genera mostri, ma non quali siano e di quale natura. Qualcuno si è riferito ai mostri, che il Poeta incontrerà nella cantica, a cominciare dalle tre fiere, che gli si faranno avanti di lì a poco, spingendosi fino al paradosso che Dante avrebbe sognato la sua Opera maggiore (poiché la “metà della nostra vita”, di cui al v. 1, sarebbe quella in cui dormiamo!!!) e prova ne sarebbe che le tre fiere gli vengono incontro, ma, come in un sogno appunto, non lo raggiungono. In realtà, mi sembra abbastanza evidente che le cose non stiano così, poiché la selva, in cui ci si può ritrovare senza sapere come e, comunque, a causa di un sonno, è la selva di una vita investita dalla colpa e dall’errore2, dove il male che questi mostri fanno non è altro che respingerti là dove ‘l sol tace (v. 60), mostri e diavoli, che non hanno altro scopo che quello di fermarti e/o di farti ritornare indietro dal bello e dal giusto.

Dante, quindi, a metà della sua vita, si accorse di percorrere una via d’errore. Non sa dire come ciò sia avvenuto, nella casualità degli eventi occorsigli, ma una cosa gli è ben chiara: in un momento della sua vita gli è mancato il ben de l’intelletto. La perdita del centro intorno al quale ruotava la sua vita (molti critici lo identificano nella morte di Beatrice, altri nella sua entrata in politica e nel successivo fallimento) ebbe come conseguenza una sorta di traviamento morale, cosa che gli sarà rimproverata dalla stessa Beatrice negli ultimi canti del Purgatorio e che vedrà il Nostro mondanizzare la sua vita in modo tale che anche i suoi amici poeti, con i quali aveva condiviso l’esperienza dello Stilnovo e del poetare nella nascente lingua italiana, ne avranno da dire. A questo periodo (1300 circa), infatti, possiamo datare esperienze come la Tenzone con Forese Donati, lo scambio di rime “scherzose” (ma anche forti) con Cecco Angiolieri e, a star dietro alle cosiddette Rime petrose, nuovi amori, corrisposti e non.

E così, dunque, la selva si pone come questo intrigo di passioni traviate e decadimento della vita morale. E questo è il senso del verbo ritrovarsi, cioè di un “trovarsi improvvisamente” in una situazione non voluta e non cercata, ma neppure evitata, perché le passioni mondane o i vizi (checché significhino le tre fiere), se assecondate, non danno tregua e spingono indietro, verso l’interno della selva, impedendone la definitiva uscita.

 

Tant’è amara che poco è più morte;

ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,

dirò de l’altre cose ch’i v’ho scorte.

                                                     

                                                            (vv. 7-9)

 

Per il Vacchelli3, però, il verbo ritrovarsi sta a significare anche: 1) “trovarsi nuovamente”, ma non essersene accorto prima. Questo “non accorgersi” è l’elemento peggiore del discorso, perché, se continui a “ritrovarti nella selva”, e cioè a perderti, e non te ne accorgi, è finita! Sei perduto per sempre. Vivi ancora nel “sonno” e non puoi agire per liberarti. Il terzo significato e, dunque, l’accorgersi di essere dentro. E questo “accorgersi” è tutto; è ciò che provoca il risveglio e la possibilità di superare l’impasse provocata dal mero “ritrovarsi”. È la metanoia del Vangelo di San Giovanni; è, quindi, quel superamento del sonno che può originare tutto il processo di liberazione. È fondamentale accorgersi delle proprie selve, del proprio male. A parere di chi scrive, però, in questo “accorgersi” c’è anche l’incaglio, perché, per uscir fuori dalla selva, non è soltanto necessario scoprire di esserci, ma anche capire ciò che ti è successo, cioè il motivo di quel tuo “ritrovarti nella selva” e scoprire come puoi “rimetterti in carreggiata” e ripartire (Virgilio); scoprire che, probabilmente, non è così semplice tornare indietro per ritrovare la strada e cercare di ripercorrerla. Scoprire che, per ritrovarsi, cioè per “trovare nuovamente se stessi”, è necessario percorrere la strada fino in fondo, senza ritornare indietro, perché la selva è anche opportunità di bene, bene che nasce dalla conoscenza, una conoscenza, però, ben conscia del suo limite e delle sue responsabilità, una conoscenza che non è come quella che vuole Ulisse (canto ventiseiesimo), il quale si fa paladino di una conoscenza, che, alla fine dei conti, vuole andare oltre l’umano, e finisce per distruggerlo (la grande dignità del corpo umano è ridotto a una fiamma, simbolo delle distruzioni apportate dai suoi consigli fraudolenti), ma, ça va sans dire, una conoscenza che ti spinge fuori dal male, in cui sei caduto.

La selva, dunque, come possibilità: 1) ritrovarsi come scoprirsi; 2) ritrovarsi, in un certo senso, come auto-comprendersi e 3) ritrovarsi come scoprire qual è il proprio fine e perseguirlo, guardando in faccia il proprio male4.

La selva, però, anche luogo di dinamiche comunitarie e di possibili cammini per l’Umanità.  Superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi (dirà Ciacco ai vv. 74-75 del sesto canto). Si sa che le tre fiere, che cercano di respingere il Pellegrino nella selva, possono essere interpretate come allegorie di tali vizi. Ciacco è il primo personaggio della Commedia che parla di politica, gridando contro Firenze e i suoi mali e profetando al Poeta l’esilio, e la prima terzina del canto ventiseiesimo:

 

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ’nferno tuo nome si spande!

 

ci fa comprendere come l’Inferno, ma, in certo senso, tutta la Commedia, rispecchi un piano, che potremmo definire politologico per l’Opera. Le invettive contro Firenze e, in filigrana, la traccia di un programma di redenzione per l’intera Umanità ci indicano che l’Alighieri aveva, probabilmente, capito verso dove portavano i nuovi venti della Storia5 e, senza ovviamente credere possibile un tornare indietro, cercava di indicare un cammino possibile sulla falsariga di ciò che era stato. Cacciaguida, nel gruppo dei canti del Paradiso, che vanno dal quindicesimo al diciottesimo compreso, farà capire che i nuovi cambiamenti sociali, a partire dall’inurbamento fino al generale mescolamento di cittadini e abitanti della campagna e al degrado dei costumi (due fenomeni che alla nostra mentalità contemporanea ripugna mettere insieme, ma che, evidentemente, ai tempi di Dante era un pensiero corrente), ma anche l’incipiente capitalismo della nuova società mercantile sono fenomeni, che, anche se non sono di per sé cattivi, devono essere governati bene. Sarà, quindi, questo non saper governare bene la nuova società che porterà, nei cittadini di Firenze, la superbia, l’invidia e l’avarizia, che metterà in loro il desiderio di voler combattersi per la primazia su una città, che, se non sarà ben governata – e questo vuol dire avere un governo che non la laceri per bassi interessi – il suo nome non sarà noto soltanto nei porti e nelle città, dove mercanteggia e si arricchisce, ma anche all’inferno, con i suoi ladri, barattieri (corruttori politici) e falsari.

Ciò che Dante deplora, però, è che la nuova ricchezza ha invaso anche il luogo u’ siede il successor del maggior Piero (2, 24). Saranno molti gli uomini di Chiesa, che il Fiorentino incontrerà, e saranno molte le invettive contro ciò che è diventata la Sposa di Cristo, perché bisogna sapere che Dante non se la prende con la Chiesa in quanto tale, che è sempre rispettata, ma, appunto, con chi storicamente la regge in quel dato momento.

Ed è per questo che la “profezia del Veltro” affascina, perché qui non si parla più di qualcosa che riguarda il Nostro, ma l’insieme della società italiana (di quella umile Italia fia salute; v. 106 e, v. 109, questi la caccerà d’ogne villa). Il discorso sul Veltro e la ricacciata nell’inferno della lupa, simbolo, comunque la si guardi, dell’avarizia e dell’avidità cupida acquista, così, il carattere di una vera profezia e, di questa, ha anche il linguaggio e l’oscurità. Allora, va da sé che la selva e tutto l’impianto allegorico del canto si riferisce anche alla nuova Italia borghese e capitalista. E credo, quindi, abbastanza fondata l’idea che la terna di significati del verbo “ritrovarsi”, di cui parlava il Vacchelli, si deve riferire anche ai nuovi Italiani (non oso, in realtà, parlare di Umanità, perché il canto non ha nulla di concreto che avvalori tale ipotesi).

La nuova società italiana, infatti, possiamo dire che, forse senza saperlo, “si è ritrovata” nella selva oscura delle lotte interne alla medesima città e in quelle con le altre città e signorotti della Penisola e nel pericolo degli interventi stranieri (sappiamo come, fino al ‘500/’600, i suddetti signorotti si serviranno delle bande mercenarie tedesche o svizzere). Per Dante, il motivo è essenzialmente uno, il dominio della lupa. È la lupa, che mai non empie la bramosa voglia (v. 98), la causa della decadenza delle città italiane e dello spezzettamento della nazione (uso un sostantivo improprio nel Trecento, ma giusto per capirci) e il “ritrovarsi” è da riferire alla situazione di un vedere improvvisamente come il nuovo stato di libertà e indipendenza dall’Impero universale (che Dante, come sappiamo, lo ritiene voluto da Dio stesso) non abbia portato altro che caos, dispersione e vizio. Sappiamo come, per lui, l’impasse va superato, secondo il De Monarchia, proprio restaurando l’Impero universale (e, perciò, per alcuni, il Veltro sarebbe l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo).

Karl Marx

Il Vacchelli individua il secondo stadio in quello della critica di Dante nei confronti di questa società protocapitalista e sfruttatrice dei poveri e degli ultimi (la lupa molte genti fé già viver grame; v. 51), ma, a parer mio, se ci inoltriamo su questa strada, che, fra l’altro, è la strada praticata dalla Teologia della liberazione di uomini come Ignacio Ellacuría o Leonardo Boff, uomini, che, com’è noto, hanno cercato di mettere insieme
Gesù di Nazareth

Gesù Cristo e Karl Marx, ma non di Dante, che, peraltro, non era contro il capitale tout court e neppure contro le sue deviazioni “omicide”, ma, piuttosto, contro quello che potrei definire il potere di comando che deriva da una ricchezza sbagliata. Se la dispensatrice della ricchezza è la Fortuna, che è ministra di Dio, essa non può mai essere cattiva; cattiva è la ricchezza sbagliata, cioè la ricchezza non dispensata da questa ministra divina. È la ricchezza di chi si arricchisce malamente, non sfruttando i poveri, ma chi fa propria una ricchezza, che non gli spetta: i ladri e i politici corrotti (i barattieri), i falsari, i chierici simoniaci e variamente attaccati al denaro ecc. E, d’altronde, stiamo su una strada sbagliata anche se pensiamo che attribuire alla società il secondo significato di “ritrovarsi” nella selva sia la critica che Dante muove alla sua città e all’Italia. Non credo che questo significhi accorgersi di essere capitati nuovamente. Sì, la critica intellettuale è necessaria, ma non è sempre sufficiente (quasi mai lo è, a dire il vero!) alle società per venire fuori dalle crisi reali e dure. Il Medioevo superò l’impasse delle invasioni germaniche e della crisi dell’Impero Romano non per mezzo della penna dei critici di quei giorni convulsi, degli storici, dei teologi e dei teorici vari (ad esempio, chi auspicava un ritorno al lavoro dei campi), ma con le braccia di chi, all’interno di quella società, seppe capire le domande e dare le risposte.
San Bernardo di Chiaravalle

E, qui, si potrebbero scrivere libri interi sui tanti santi, chierici e laici (come Benedetto da Norcia, Bernardo di Chiaravalle ecc.)
San Benedetto da Norcia

, che, nel chiuso dei conventi, hanno preparato speranze e nuova vita su cammini di Fede, di preghiera e di sacrificio, accogliendo ed esaudendo i veri bisogni della gente, curando i malati più intoccabili (appestati, lebbrosi) o, semplicemente, recuperando il meglio della cultura del passato per intrecciarla con il meglio di ciò che si presentava davanti ai loro occhi. E tutto ciò portò alla rinascita della civiltà occidentale voluta da uomini come Carlo Magno, la quale si basò anche sulle armi e sullo stroncamento di ciò che era concepito come estraneo (ad esempio, nelle lotte contro i Mori e i Saraceni musulmani), ma solo perché c’erano minacce reali e, si sa, l’uomo tende sempre a guardare da una parte soltanto. Ma, a volte, è anche necessario uscire dal politicamente corretto e guardare le cose con realismo e con gli occhi degli uomini di allora: cosa sarebbe successo alla nostra civiltà, se quello non fosse stato anche il tempo delle armi? Ciò che si preparava nel silenzio dei conventi, entro le mura delle curtes e delle villae sarebbe venuto fuori? Quegli uomini avrebbero avuto la forza di farlo fiorire? Ecco, a volte, i pacifisti da tavolino e dalle bandiere arcobaleno di oggi dovrebbero riflettere su questo. Tutto questo discorso serve a far capire che il secondo significato del verbo “ritrovarsi” non può venire dalla presa di posizione del Poeta, ma dall’interno della stessa società in crisi, che trova da se stessa e in se stessa la capacità di risorgere, proprio guardando al suo passato e a come ha risolto le altre crisi.

    Il terzo significato, si è detto, è lo stadio della metanoia, dell’evangelica “conversione”, che è uno stadio più personale (se così si può dire, parlando di una società). Questo terzo significato del termine obbliga a uscire fuori. La “conversione” implica un cammino in senso inverso rispetto a quanto si è fatto fino a quel momento. In senso sociale significa darsi da fare per cambiare verso tutti insieme. E, per fare ciò, occorrono due cose: una guida e l’impegno in prima persona. La guida saprà dirti ciò che dovrai fare e, magari, come dovrai, ma, quanto all’operare, dovrai provvedere solo tu. Ragione (cioè, intelligenza) e volontà sono i due strumenti che Dio stesso ha messo nelle mani dell’uomo per cambiare il mondo intorno a sé. Il cambiamento, quindi, non è qualcosa che viene ex abrupto con un colpo di bacchetta magica o come dono del Cielo. Devi metterti in gioco tu; devi avere il coraggio tu di sporcarti le mani
Ambrogio Lorenzetti - Il buon governo

.


1 Più avanti si vedrà la grande importanza di questo “ritrovarsi” e come esso sia già polisemantico.

2 Non per nulla, “errore” ed “errare” hanno il doppio significato di “sbaglio”/”sbagliare” e “vagabondaggio”/”vagare”. Le due cose non sono così lontane fra loro. Se si vaga senza meta non è difficile sbagliare strada. Così se si vaga lontano dalla verità. È facile perdersi nel marasma delle opinioni e delle false certezze.

4 Ciò che, in fin dei conti, ha fatto il Verbo divino, la seconda Persona della Santissima Trinità, per redimerci: incarnarsi in Gesù di Nazareth per “condividere” (comprendere e abbracciare) la nostra umanità e portarla fuori dalle “secche” entro cui l’aveva cacciata il primo parente (Inf. 4, 55). Gesù, quindi, come il prototipo del salvato oltre che il Salvatore, Colui che svela l’uomo all’uomo – per dirla con il Concilio Vaticano II – e sintesi della Storia, anche hegelianamente parlando.

5 Anche se, poi, il pensiero di “restaurazione monarchica” e la speranza riposta nel piano di Arrigo VII di Lussemburgo forse appoggiati ingenuamente, forse a ragion veduta, dimostrerebbero il contrario. Va da sé, però, che, nei grandi pensatori, la comprensione reale dei problemi è sempre come coperta da un velo di utopia (spesso, vista davvero come possibilità reale e portata avanti come tale, spesso creata soltanto come illusione o visione allegorica di un mondo possibile se…).

mercoledì 24 maggio 2023

Dante, Manzoni, Verga e… Susanna Tamaro

È incredibile come, a volte, si intersecano fra loro eventi e parole, che valgono più di mille discorsi su come camminano gli uomini (e le donne, ça va sans dire!) in questo nostro tempo.


Non voglio essere inutilmente moralista né ciò che sto per dire lo ritiene necessario. Questa è semplicemente una riflessione, che mi porto dentro da tempo, e che, dopo quanto successo in questi ultimi giorni, ho deciso di sviluppare e di condividere con chi avrà la bontà di leggere e, perché no?, di esprimere il suo parere, anche se questo sarà lontano anni luce dal mio.

In questi ultimi giorni, al Salone del Libro di Torino, la scrittrice altoatesina Susanna Tamaro ha espresso un suo parere circa lo studio della letteratura nel nostro Paese, esprimendo un giudizio abbastanza comune: nelle scuole italiane, non bisognerebbe più far leggere ai nostri ragazzi Verga per appassionarli alla lettura, ma autori, anche se non propriamente contemporanei, ma, letteralmente, "cose che fanno loro eco dentro".

Subito, dunque, tre spunti di riflessione:



1) Perché cita Verga e non, che ne so, Manzoni o il Foscolo dell'Ortis (per rimanere alla prosa)? Eppure il Padre del Verismo è uno dei romanzieri più "moderni" dell'Ottocento (e uno dei primi del Novecento). Sarà, forse, perché, per sua stessa ammissione, alla Nostra non piaceva?

2) Che cosa significa "cose che fanno loro eco dentro"? Non è l'insegnante a dover suscitare quell'eco? Come si può pretendere che dei ragazzi o dei giovani abbiano già un'eco dentro?

3) Questi "illuminati" del pensiero contemporaneo quale idea hanno della scuola e delle materie, che si insegnano? Cosa li guida? Forse solo il marketing.

Ma dicevo la concatenazione degli eventi.

Il giorno 22 maggio 1873 (giusto 150 anni fa) moriva Alessandro Manzoni e, proprio in occasione della ricorrenza, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli rendeva omaggio con una corona sulla tomba al cimitero monumentale di Milano e con un discorso quanto mai appropriato.

Dunque:


1) l'anno scorso i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri con grandi celebrazioni e, perfino, con una Esortazione Apostolica di Papa Francesco e l'istituzione di un "Dantedì" da celebrarsi il 25 marzo di ogni anno;

2) quest'anno i 150 del grande romanziere milanese (cui, purtroppo, non seguirà niente e, in realtà, una "perpetuazione" del suo ricordo l'avrebbe pur meritato, magari non legata a "I Promessi Sposi", romanzo usato e abusato e, forse, mai abbastanza compreso davvero, ma, molto più fruttuosamente, alla Storia e al senso che le diamo, visto che il Manzoni questo aspetto dello scibile umano l'ha studiato e spiegato e, a quanto sembra, noi non l'abbiamo abbastanza compreso).

L'uscita della Tamaro, dunque, mi sembra così fuori contesto da essere – o sembrare – addirittura scandalosa. Perché mai si dovrebbe sostituire Verga (ma è lecito leggere anche i nomi dei due citati sopra o ce l'ha solo con Verga?) con… con chi, poi? Chi "farebbe eco dentro" i ragazzi di oggi, tutti smartphone e tablet? Chi sceglierebbe i nuovi autori e le nuove opere? Perché, poi, la funzione della letteratura non è solamente quella di suscitare emozioni; certo, anche quello, ma è, soprattutto, suscitare passioni, generare consapevolezza, educare a ciò che siamo. In Dante, in Manzoni, in Verga, noi troviamo ciò che ci ha reso quello che siamo e impariamo a non perderlo. Ben venga, allora, che si studino i nostri contemporanei, ben venga che si studi "chi fa eco dentro i nostri giovani", ma, insieme a questi, continuiamo a conoscere anche chi ci ha dato quello che abbiamo e ci ha insegnato a non perderlo.

Il problema, piuttosto, sembra essere oggi come far comprendere ai nostri giovani – e, a quanto si è visto, anche ai meno giovani – che queste sono storie, che ci appartengono, perché, bisogna gridarlo dai tetti, il relativismo e il nichilismo delle nostre società ha reso questi argomenti assai obsoleti. È, quindi, sempre quello il problema: chiaramente, non è più possibile proporre la Divina Commedia, I Promessi Sposi, le novelle e i romanzi verghiani come venivano proposti a noi "del secolo scorso"; è chiaro che, forse, il discorso ex cathedra non funzionerebbe più perché oggi, a quello che sembra a un competente che vede le cose dall'esterno, la didattica nasce dal basso, ma è altrettanto vero che "i maestri" dovrebbero sempre e ancora proporsi come guide dei percorsi per far comprendere quale strada prendere, per condurre il pensiero ancora in formazione dei giovani e metterlo in guardia da sirene fuorvianti e malintesi sensi di modernità, che, invece, mirano solo a creare società meno consapevoli di sé per portarle non dove (ti) porta il cuore, ma dove portano le volontà distorte di chi – e, si badi bene, non è complottismo da quattro soldi – desidera che la società futura sia solo una società di automi a servizio di un potere di sempre meno individui senza né passato e, ovviamente, con poche idee di ciò che potrebbe essere il suo futuro.

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