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sabato 24 luglio 2010

“C’è un pirchì alla pazzia?”

La domanda che appare nel titolo si trova verso la fine del capitolo sedici dell’ultimo romanzo montalbaniano di Camilleri (La caccia al tesoro, Sellerio, Palermo 2010, € 14, 00) ed è inserita come risposta retoricamente data dal commissario all’ispettore Gallo, che, attonito di fronte al cadavere orribilmente mutilato di una ragazza, di cui erano alla ricerca, si domanda e domanda al superiore se tutta la vicenda abbia un senso, un “pirchì”. Per un commissario di provincia qual è Montalbano – e per il suo creatore, Andrea Camilleri, che, nonostante il successo mondiale dei suoi libri, mi pare essere ancora più provinciale del suo personaggio – non esistono indagini criminologiche, profili psichiatrici ecc. Tutto si risolve nel trovare chi ha commesso il crimine, come l’ha commesso e, magari, quando l’ha commesso, ma al perché (Why? in inglese) non sembra che lo scrittore sia interessato. Quale ne è la ragione? Una prima, superficiale, spiegazione potrebbe essere il carattere in genere poco speculativo di noi meridionali. Il perché, la richiesta insistente delle motivazioni, la demandiamo ai “picciliddri”. E, infatti, in un’altra pagina dello stesso romanzo, le insistenti domande di Gallo fanno venire in mente al commissario proprio “i picciliddri dell’asilo”. L’uomo adulto ha le sue certezze. Arturo Pennisi, il criminale di turno che ha sfidato il commissario alla caccia al tesoro del titolo, credendo di aver sconfitto il suo avversario e avendolo condannato ad una morte atroce, non ritiene di aver commesso gli errori, che gli rinfaccia il commissario e, perciò, come tutti i pazzi, si altera e diventa oltremodo violento. Ma anche Montalbano ha le sue linee guida e raramente si lascia prendere dal dubbio. E, perciò, quando si tratterebbe di “prevedere” le mosse dell’avversario, arriva tardi. Così in La gita a Tindari, quando, preso dal caso dell’“ammazzatina” di Nené Sanfilippo, trascura la scomparsa di una coppia di vecchietti, che, poi, ritrovati barbaramente assassinati, scopre essere legati a filo doppio con il Sanfilippo; così in questo La caccia al tesoro, in cui un ventenne studente di filosofia, figlio di un amico del marito di Ingrid, che vuole conoscere Montalbano e studiare il suo cervello, si ritrova poi ad essere proprio il pazzo criminale, che l’ha sfidato ad una mortale caccia al tesoro, lui che era il simpatico ed intelligentissimo sosia di un innocente Harry Potter!
Gli ultimi romanzi con protagonista il commissario di Vigata ci hanno abituato a vederlo alle prese con un’incipiente vecchiaia – vissuta più psicologicamente che realmente (e questo è un altro tema che, un giorno o l’altro, si potrebbe affrontare non senza frutto) – e con i riflessi probabilmente rallentati. Qui, però, non si tratta di questo. Nel nostro romanzo Montalbano non è rallentato dalle conseguenze della vecchiaia, ma dallo stato di salute mentale del suo avversario.
Prima degli ultimi capitoli non si ha il minimo sentore di anormalità in Arturo se non nel fatto che, studente di filosofia (epistemologia per la precisione), si interessa di criminologia. Ma la cosa è meno di un dettaglio, tanto che il commissario non ci sta a rimuginare su più di tanto. E sbaglia, perché proprio la mancanza di connessione fra i due campi di conoscenze (ciascuno avente sue proprie regole) poteva dargli il destro (e anche al suo Autore) di intraprendere il non facile percorso dell’esame della psiche umana. A pag. 242, in finale di romanzo dunque, Montalbano (lui, non l’Autore. Cominciamo a prendere nota di questo) definisce “pazzo criminale” quello che fino allora era un intelligente collaboratore. Ha trovato il cadavere di Ninetta, ne ha visto lo scempio, ha sommato due più due ed è arrivato alla conclusione.
Ma per il nostro commissario che cos’è la pazzia? In base a che cosa egli definisce Arturo pazzo criminale?
Certamente, e anzi soprattutto, per quello che ha fatto. È un poliziotto e deve punire un reato, e un reato particolarmente efferato. Ma io sono sicuro che c’è dell’altro.
Il grande conterraneo di Camilleri, Luigi Pirandello, ha esaminato a fondo la pazzia nella sua opera e, per mezzo della malattia della moglie Maria Antonietta Portulano, ne ha dolorosamente avuto a che fare. La difficile vita familiare, a motivo della morbosa gelosia di lei prima del suo ricovero in manicomio, lo spinge a valutare come una trappola che imprigiona e soffoca l’uomo dapprima la vita familiare, poi, con il romanzo Il fu Mattia Pascal, l’intera società. E il motivo è presto detto. Per il grande Agrigentino “la pazzia è una forma di normalità” (Uno, nessuno, centomila), anzi, rincarerei, è la vera normalità. Come siamo, in rapporto all’altro, uno o centomila (e, in fondo, nessuno), così la pazzia è uno stato di alienazione della società contemporanea in rapporto al singolo individuo. Non è, dunque, l’individuo l’alienato, ma la società. E se è la società, beh, allora bisogna dire che pazzi lo siamo un po’ tutti e, in particolare, l’uno per l’altro, l’uno in rapporto all’altro.
Per Montalbano è così?
Come accennato, egli è uno sbirro e il suo compito è “smascherare” i colpevoli, cioè nel senso comune di scoprirli e assicurarli alla giustizia, ma inevitabilmente anche in senso pirandelliano di far cadere la maschera, che ciascun uomo porta di fronte all’altro. Pennisi, di fronte al commissario indossa una maschera, e non soltanto perché è un assassino, che vuole capire “come funziona il suo cervello”, ma perché è
così che funzionano i rapporti fra gli individui. Lo vediamo, d’altra parte, anche in quello che sarebbe potuto divenire un “buon” triangolo amoroso fra il commissario, Livia e Ingrid, se non fossero onnipresenti delle maschere che “salvassero le apparenze” di un Montalbano integerrimo e fedele alla “sua” pur lontana Livia e
di una Ingrid rispettosa della “pudicizia” (che parolone!) dell’amico. Del resto questo assassino indossa una maschera anche nei confronti della “svidisa”, una subdola maschera che gli permette di nasconderle la propria pervertita sessualità e il desiderio che, evidentemente ha di lei e che freudianamente proietta rendendola da oggetto di desiderio soggetto (lo svela al commissario la stessa Ingrid). Uomo pericoloso, dunque, e non solo perché aggioga a sé coloro che gli sono vicini, ma perché chi gli è vicino “crede” di vederlo così e per lui “è effettivamente così”. Montalbano è uno sbirro “che quando vuole capire una cosa la capisce” (La forma dell’acqua; il corsivo, mio, rende al presente quello che nel romanzo è all’imperfetto) e, quindi, disvela il suo avversario per quello che è: un pazzo assassino.
Ma possiamo essere davvero sicuri che, quest’ultimo è il vero volto di quell’uomo?
La definizione di “pazzo assassino” (pag. 242) è, in effetti, del commissario, non di Camilleri, non è cioè dell’Autore, pirandellianamente l’unico che sarebbe legittimato a dare forma al personaggio. Montalbano, da sbirro, crede di aver trovato la causa, il movente, dell’atto criminoso, ma essa è, invece, direbbe Aristotele, la “causa efficiente” dell’azione. La presunta pazzia non è, cioè, la ragione intenzionale dell’azione, ma solo un mezzo, un “agente” per mezzo del quale avviene il mutamento, cioè il reato, quell’atto per cui viene rotto un certo equilibrio. Ma in
quanto alla “causa finale”, cioè riguardo al motivo, o intenzionalità, per cui l’azione è stata fatta? A tale domanda il commissario non sa rispondere: “C’è un pirchì alla pazzia?”. Domanda retorica che presuppone una risposta negativa. E Camilleri, l’Autore, cosa dice? Egli non approfondisce. Opportunamente tace e lascia il suo eroe con uno strano ed inspiegabile “stringimento di cori” (pag. 268), strano, però, solo per chi non vuol leggere, perché, intendendo bene, Camilleri ci insinua un dubbio: non è che questa “pazzia” sia solo un’ultima, tragica, maschera? E qui il sostantivo “maschera” ci andrebbe bene anche per un’altra ragione: la stessa ragion d’essere del personaggio. Il Pennisi cambia atteggiamento quando il commissario gli rivela di essere arrivato alla verità grazie ad un lapsus e a due omissioni da lui commessi. Il nostro criminale si adira e diventa violento (se non lo era stato, e soverchiamente!). Come tutti i pazzi non vuole essere messo di fronte alla definizione di quello che ha fatto o di quello che è. Egli, però, si adira anche, e forse soprattutto, per il suo progressivo annichilimento. Man mano che il commissario lo spoglia delle sue maschere, anche lui va scoprendo di non essere né quello che lui pensa di se stesso né quello che vedono gli altri di lui. Da tutti ritenuto intelligentissimo, si era fatto convinto di non poter sbagliare. Per lui l’errore non era possibile e il commissario, che l’ha “smascherato”, è stato solo appena un po’ più furbo. Non vuole – o non sa – capire che l’errore è una qualità umana irrinunciabile. È proprio qui, direi, la statura “drammatica” del personaggio. Se tutti i personaggi più riusciti di uno scrittore devono, prima o poi, fare i conti con la loro “umanità”, il Pennisi – e, forse, ogni “colpevole” camilleriano (analizzarli in questo senso sarebbe impresa assai interessante) – si sottrae a questa necessità. Tanto è vero che non mi pare di aver udito nei romanzi e racconti gialli di Camilleri molti scatti di manette. Lo “stringimento del cori” allora non è, non può essere, pietà umana da parte di Montalbano. Il commissario vigatese non è né Padre Brown né Don Matteo, per i quali c’è sempre una via di redenzione. Per lui, il reo è sempre un “fituso”, anzi è meno di un uomo. Quante volte ha maltrattato, con parole o nei fatti, coloro che si sono macchiati di orrende azioni (quale appassionato lettore del “Cantore di Vigata” non ricorda, per esempio, il trattamento riservato al colonnello dei servizi Lohengrin Pera in Il ladro di merendine o quello di cui è fatto oggetto l’infermiere aguzzino di bambini immigrati in Il giro di boa). E in questo sta anche il controsenso del romanzo, di cui parliamo. Se, infatti, La caccia al tesoro è un giallo – o meglio un noir –, perché Pennisi non ha un vero movente, che sia altro da quello che rivela? Perché Montalbano – e, insieme, Camilleri – si “accontenta” del fatto che abbia ucciso e mutilato il cadavere di Ninetta solo perché assomigliava alla prostituta Samantha, che voleva far sua (per farle fare, magari, prima o poi, la stessa fine). Perché la soluzione del mistero sembra non approfondire l’argomento del possesso della bambola gonfiabile, e dunque del sesso deviato, sia da parte del nonno sia dell’altro suo più lontano parente (per altro, anche bigotto fino alla follia). Quale tipo di pazzia affligge il Pennisi e perché le mutilazioni inflitte al cadavere di Ninetta assomigliano tanto ai guasti della bambola di Gregorio Palmisano? Perché il nostro assassino decide di “gareggiare” con il commissario e di esaminare il suo cervello? Che c’entra con lui? Che significato hanno, infine, “la pena infinita e lo stringimento del cori” provati dal commissario all’arresto del reo?
Tutte queste domande e, magari, altre di un lettore più attento, hanno da parte di Montalbano e del suo papà come risposta quella stessa che il commissario dà a Gallo: alla pazzia non c’è un perché.
E, invece, io credo che la risposta sia una sola, quella stessa che dette al suo uomo Livia (nel racconto La paura di Montalbano, inclusa nell’omonima raccolta). Il commissario di provincia Salvo Montalbano (e, forse, anche il suo “papà” Andrea Camilleri) ha paura a scavare nella psiche dei delinquenti. È più facile prenderli a pugni per quello che fanno; considerarli “fitusi”, “strunzi” (anche il nostro Pennisi è apostrofato così da Fazio: “Resta fermo così, stronzetto. Se fai un minimo movimento t’ammazzo”; pag. 268), “merde d’omo” (così l’infermiere sopra citato in Il giro di boa),
che indagare nei meandri della loro psiche e provare quello stringimento del cuore che prende questa volta il nostro poliziotto. È più facile catalogare le persone in compartimenti stagni (la vittima, il delinquente, il testimone…) piuttosto che correre il rischio di vedersi davanti mescolate vittime e carnefici, pazzi e sani, amici e nemici.
A ben vedere, d’altra parte, lo stesso Camilleri ha, un giorno, tentato di fare lo stesso nostro discorso (se non per iscritto, almeno nel suo animo). Era il 1999. Nella raccolta di racconti Gli arancini di Montalbano (edito da Mondadori) figura un testo dal titolo emblematico, Montalbano si rifiuta, che sembra avere molti punti in comune con il romanzo. In questo racconto, per altro non lungo (quasi otto pagine nell’edizione Oscar Best Sellers del 2005), Camilleri tenta di rovesciare i suoi canoni: Fazio cerca di far confessare a suon di pugni un vecchio indiziato di pedofilia e omicidio, Mimì “lo salva” dal linciaggio con un finto tentativo di evirazione (ferendolo, però, realmente) e Montalbano, trovatosi di fronte ad un caso di cannibalismo, vuol far giustizia da sé
uccidendo i colpevoli. Alla fine, però, il “coup de (meta)théâtre”: Montalbano stesso telefona al suo Autore e gli fa sapere che la storia, che ha inventato per lui non gli piace. L’Autore evidentemente concorda e il commissario non mette in esecuzione la condanna a morte dei due cannibali.
Il racconto, che ho qui ricordato, fa capire che il commissario di Vigata non è pronto per entrare in storie in cui, come diceva il vecchio mafioso Balduccio Sinagra in La gita a Tindari, si oltrepassano certi limiti. Camilleri sì. Camilleri era pronto nel 1999 ed è pronto adesso. Il romanzo La caccia al tesoro ce lo fa capire. Montalbano, però, si rifiuta ancora. L’Autore questa volta non getta la spugna. È costretto, però, a scontrarsi con l’incapacità introspettiva del Personaggio, che riesce a malapena a provare una stretta al cuore per la sorte dell’intelligente eppure pazzo Arturo Pennisi.
Non credo, però, che questo preluda ad una svolta. Montalbano non può scavare nelle profondità dell’animo umano, anche del suo (ne è la prova il fatto che zittisce sempre a male parole quel Montalbano Secondo, che è la sua coscienza, che compare in alcuni romanzi a cercare di sbugiardare l’ipocrisia di Montalbano Primo), e il mondo “è diventato troppo tinto per pensare”, come dice il pastore testimone dell’incidente simulato in cui perde la vita il piccolo immigrato ribelle in Il giro di boa.

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