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mercoledì 15 maggio 2013

Cold case per l’ispettrice Petra Delicado.



«Gli onori di casa», l’ultimo romanzo della giallista spagnola Alicia Giménez Bartlett (Sellerio, pp. 211, € 12, 75), mi ha fatto scoprire questa particolare scrittrice (per molti versi, mi pare, assimilabile al nostro Andrea Camilleri) e, più ancora, un mondo letterario forse poco considerato come quello spagnolo.
La trama, molto complessa e ricca di colpi di scena, muove dalla riapertura di un caso di omicidio archiviato cinque anni prima. L’ispettrice Delicado e il suo vice Garzòn non sono per nulla entusiasti della cosa, anche perché la vicenda non ha mai presentato, per la polizia, lati oscuri e, per di più, perché a voler riaprire il caso, contro il parere delle tre figlie del morto, è la vedova e il giudice che accoglie l’istanza è un anziano magistrato che, in prima battuta, Petra crede essere uno di quelli che convivono con vecchi faldoni e il pallino dei casi irrisolti. Dovrà, però, ricredersi sia perché vedrà nel giudice un uomo attivo sia perché usciranno dei particolari che la porteranno ad appassionarsi al caso e a non mollare la presa fino alla scoperta di un “doppio canale” di infiltrazioni camorristiche nell’azienda di famiglia e di una turpe storia di rapporti incestuosi.
Quello che mi ha colpito del romanzo, però, non è tanto la storia poliziesca, che francamente non mi ha “emozionato” più di tanto: un romanzo che tiene quasi fino alla fine su una storia di infiltrazioni camorristiche in un’azienda spagnola in cui è riciclato denaro sporco e che vede la polizia spagnola inviare propri rappresentanti a Roma (a Roma?) e, qui, vedere Petra Delicado rischiare la vita (e, dunque, avere conferma della validità della strada intrapresa), non può avere un esito del tutto differente, di cui si ha sentore solamente negli ultimi due o tre capitolo (il povero Van Dine si rivolterebbe nella tomba, sapendo di una violazione così plateale addirittura della sua regola n° 1). Quello che, invece, mi ha colpito e fatto riflettere è ben altro: mi pare che il punto di forza del romanzo siano proprio i due protagonisti, l’ispettrice Petra Delicado e il suo vice Fermìn Garzòn, personaggi che danno il meglio di sé fuori della questura e dell’ambiente lavorativo, ma più propriamente in quello privato e, precisamente, in quello familiare.
Petra Delicado – il suo nome stesso parla – è una donna inflessibile e dura con se stessa, il suo vice e con i delinquenti con cui ha a che fare, ma sa essere dolce e delicata, in particolare con il secondo marito, Marcos, e i figli di primo letto di lui, ma anche verso gli altri che la circondano saltuariamente. Il tratto che la contraddistingue più specificamente, però, mi sembra la quasi totale assenza di freni morali e/o inibitori (a Roma, per esempio, riesce ad avere un rapporto sessuale con il suo omologo Maurizio Abate, ma il tradimento nei confronti di Marcos non sembra toccarla più di tanto ed evitare di tornare a Roma è l’unica cosa che è capace di fare per evitare di ricadere nell’errore).
Leggendo il romanzo, inoltre, si possono constatare altre particolarità nel carattere dell’ispettrice, penso, ad esempio, ad una certa vena malinconica nei confronti della vita, caratteristica che cerca di bilanciare, riuscendovi perfettamente, con una buona carica di ironia spinta fino al cinismo, specialmente quando parla della vita coniugale e del rapporto fra i sessi e, in particolare, del ruolo della donna all’interno della coppia.
L’altro personaggio, che ho apprezzato molto (forse più della stessa protagonista, è il viceispettore Fermìn Garzòn, un uomo non più tanto giovane e, quindi, poliziotto vecchia maniera. Uomo concreto e senza particolari grilli per la testa, sposato con una certa Beatriz (non vi ricorda nessuno? A me ha fatto venire in mente il nome della moglie del camilleriano Mimì Augello, Beatrice, più conosciuta come Beba), una donna che si indovina piuttosto ricca e certamente non esente da snobismo se ci tiene ad “alzare di grado” la cultura del marito rifornendo ogni suo viaggio di ogni genere di libri un uomo che a Roma, vicino al Colosseo, non si sente discendente di un generale, un imperatore, magari di un Papa, ma solo del servo che probabilmente raccoglieva la cacca dei leoni dell’anfiteatro, un uomo, dunque, non solo di estrazione popolare, ma senza alcuna ambizione e dotato di quel sano realismo che lo rende atto ad assumere, nei confronti del suo diretto superiore, l’atteggiamento di un Sancho Panza con un urbano e improbabile Don Chisciotte della giustizia, un personaggio che dello scudiero del hidalgo della Mancha ha anche quella sana ironia atta a smussare i momenti più drammatici (simpatica la pagina in cui Petra, insieme con Abate, scampa fortunosamente ad un attentato e, ancora tremante, scopre Fermìn che, vicino al Colosseo, si sta facendo fotografare con i “centurioni”).
Un romanzo – e, a maggior ragione, un giallo –, però, credo, non è solo caratterizzazione di personaggi in movimento, ma anche, checché ne dicano molti, una trama ben strutturata. E, per poter parlare di altri particolari aspetti di questo romanzo, è necessario anche alla vicenda.
La Bartlett manda i suoi protagonisti in Italia e questi collaborano con la nostra Polizia. In un primo tempo, Petra non è molto entusiasta delle condizioni in cui è costretta ad operare, soprattutto a causa del fatto che la legge impone loro, in quanto ospiti, di non girare armati e senza la supervisione dei due omologhi locali, ma anche perché lei e l’ispettore italiano hanno rispettivamente due obiettivi differenti: Abate ha di mira solo la criminalità organizzata (d’altra parte, è giusto che le nostre forze dell’ordine abbiano sempre di mira di pulire il nostro Paese da questo cancro); Petra, invece, se vogliamo in piena consonanza con la contrarietà mostrata nelle condizioni in cui dovrà operare, ma anche, credo, per una certa ristrettezza di vedute, vuole, a tutti i costi e quanto prima, far uscire allo scoperto il vero assassino di Adolfo Siguàn. Nell’ambito di questa situazione, s’intravede un particolare degno di nota, ma che, francamente, non mi riesce di collocare nella giusta posizione di pensiero della nostra ispettrice o della sua autrice: è una certa avversione nei confronti – almeno all’inizio del suo soggiorno – verso l’Italia, criticata soprattutto per una presunta arretratezza nei costumi (!) – soprattutto a causa della presenza del Vaticano e delle numerose chiese (accusa che, all’Italia danno anche i cosiddetti Progressisti del nostro Paese) –, e i poliziotti italiani, che vede disorganizzati e faciloni, oltre che amanti della buona tavola (per la grande gioia di Garzòn), salvo poi ricredersi quando constaterà che la Polizia italiana non è poi così disorganizzata, quando l’ispettore Abate continuerà a tenere presente il suo caso, nonostante il gran daffare intorno all’inchiesta di camorra (cui, per altro, non è direttamente collegata) e… dopo che i due ispettori avranno dato sfogo alle rispettive tempeste ormonali.
Come si può vedere, il romanzo «Gli onori di casa» non offre molte novità nella tecnica giallistica contemporanea (anzi, offre piuttosto delle cadute abbastanza gravi, per non parlare di quello che, personalmente, credo essere un vero e proprio peccato mortale per il romanzo poliziesco, cioè l’eccessiva descrizione della vita privata del protagonista, caratteristica che, mentre da una parte permette la creazione di un personaggio a tutto tondo, focalizzando l’attenzione su tutti gli aspetti caratteriali del personaggio, tuttavia inserisce elementi estranei al sottogenere narrativo chiamato “giallo” o “poliziesco” e che contribuiscono ad indebolire la comprensione circa l’andamento dell’indagine, che dovrebbe essere il solo scopo del giallista. Un certo interesse, invece, mi ha destato la capacità della Bartlett di indurre il lettore a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti importanti delle società europee del nostro tempo: la generalizzata crisi che sta mettendo in ginocchio il tessuto economico e sociale del Vecchio Continente, permettendo chiusure di imprese o la loro caduta nelle mani della grande criminalità internazionale, e la decadenza dell’istituto familiare che si sfalda nelle sue fibre più intime, creando incomprensione fra i suoi membri più vicini. Nel romanzo risulterà, infatti, chiaro che i guai della famiglia Siguàn non sono cominciati né quando Adolfo, incestuoso padre-orco, ha abusato delle due figlie più grandi, Nuria ed Elisa né quando lo stesso Adolfo ha prestato la sua azienda agli affari sporchi della camorra italiana, ma solo quando si è cominciata a sfaldare quando, con la caduta nella rete dell’orco della sorella minore, Rosario, è venuta meno tutta la perbenistica coltre di complice ipocrisia che permetteva tante ingiustizie.
Credo di dover, quindi, concludere che la forza di questo romanzo non sia tanto nella soluzione intelligente di un intrigo, ma piuttosto nell’analisi, condotta con una verve ironica particolarmente pungente, e pessimistica, degli spinosi problemi dell’umana convivenza nella società odierna, una società in cui le problematiche interpersonali, a partire, da quelli posti dalla famiglia, sono discussi, quando sono discussi, con così grande superficialità da non essere risolti, ma in realtà elusi o, spesso, aggravati. Un vero romanzo contemporaneo e della contemporaneità, in cui la letteratura della crisi si fa, purtroppo, crisi della letteratura, cioè crisi delle finalità della letteratura, che rinuncia a cercare possibili soluzioni ai problemi che denuncia.

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