Scriveva Erodoto che per
dire di un uomo se sia vissuto felice sarebbe necessario attenderne la fine.
Credo sia vero per ogni cosa, ma, di fronte ad una novità, sarebbe impossibile
non parlare – e non scriverne – e, soprattutto, non prendere posizione.
«Il ritorno di Ulisse»,
lo sceneggiato (o, come usa dire oggi nell’onnipresente inglese, la fiction)
tratto dall’Odissea, di cui domenica
30 novembre abbiamo visto su RAI 1 la prima puntata e che qualcuno ha
definito kolossal (dopo appena una puntata?), mi ha spiazzato.
Da quando l’ammiraglia
della nostra TV nazionale ha cominciato a mandare in onda il promo al
sottoscritto, cultore della Classicità greco-romana e di quanto ha prodotto,
sono luccicati gli occhi e il cuore. Finalmente a Viale Mazzini hanno deciso
qualcosa di bello (oltre che di buono), qualcosa che ha veramente a che fare
con la nostra civiltà e la nostra cultura! In realtà, vedere che si metteva
davanti allo spettatore, insieme, la tela di Penelope e, subito dopo, l’eroe
che imbraccia l’arco con cui colpirà a morte i Proci, già appariva destabilizzante.
Possibile? L’attesa di Penelope e la sua astuzia e la strage dei pretendenti?
Cominciò ad accendersi qualche lampadina. Alla vigilia della prima puntata, mi
viene lo schiribizzo di fare una ricerca e mi si para davanti questa pagina.
Ecco spiegato l’arcano, ed ecco spiegato anche il titolo “Il ritorno di Ulisse”
e non, ad esempio, il semplice “Ulisse” o “Odissea” (come il bellissimo serial
del 1968 di Franco Rossi con Bekim Fehmiu nei panni dell’eroe e Penelope
impersonata dalla greca Irene Papas, film che, fra l’altro, si distingueva per
la presenza di brani del poema nella bella e moderna traduzione di Rosa
Calzecchi Onesti). Il nostro sceneggiato è basato sulla seconda parte del poema.
E questo è anche il motivo del mio spiazzamento. Nella prima puntata, Ulisse
non compare per niente. La puntata è la presentazione della vita di Itaca.
Conosciamo la reggia assediata dai pretendenti alla mano di Penelope
e, più
ancora, al trono; conosciamo la vita della servitù attorno al palazzo e dentro;
conosciamo i travagli di Telemaco, giovane cresciuto senza padre e ancora privo
di quelle qualità che lo avrebbero reso figlio di cotanto genitore e degno
successore al trono. Sono, arricchiti da altri particolari e altri eventi
(spesso, inutili e dannosi all’economia interna del film) i primi quattro libri
del poema.
Tutto bene, dunque?
Così sembrerebbe, se non fosse per un piccolo dettaglio: l’unico episodio reale
del poema è l’inganno della tela di Penelope e il disvelamento di esso ad opera
della soffiata di un’ancella prima e di uno dei pretendenti dopo. Il resto,
invece, è, per dirla con Shakespeare, silenzio. La trama di questa prima
puntata, infatti, corre su un doppio binario: l’attesa (tripartita fra
Penelope, Telemaco e coloro che stanno dalla loro parte, che sperano che Ulisse
sia vivo e che un giorno tornerà; i Proci, che attendono la scelta della
regina, e lo spettatore, che attende di vedere il Naufrago approdare sulla
spiaggia stremato e, quindi, la partenza vera e propria dell’opera) e lo
scorrimento della vita presente in una reggia assediata da giovinastri affamati
di sesso più che delle grasse vivande del re (come era, invece, nella citata
opera di Rossi e come leggiamo in Omero).
E veniamo alla
scenografia e ai costumi. Ad un pubblico poco attento ai particolari e a
qualche giornalista compiacente possono essere sembrati da kolossal, ma chi
scrive si permette di dissentire. Se da una parte posso essere d’accordo per
quanto riguarda la scenografia, sobria e “stretta”, ma in piena consonanza con
la civiltà micenea, che non è quella opulenta e marmorea della Roma imperiale,
tuttavia non posso essere d’accordo con i costumi né con quello che,
nell’ambiente, è chiamato “trucco e parrucco”. Se le donne sono, pur con
qualche anacronismo, abbastanza verosimili**, gli uomini sanno di artificioso e
falso: il giudizio positivo, che mi sento di dare sugli abiti “borghesi”,
diventa negativo se si guarda alle armature*** e alle acconciature (che vanno
dalla pelata di Mentore, il maestro d’armi di Telemaco, ai riccioli del giovane
fino al taglio corto, più romano e imperiale che greco anch’esso, del mimo
Leocrito****.
E altro ci sarebbe da
dire. Ci ritornerò, magari, nei prossimi articoli. Il succo di questo primo
vuol essere l’approccio ad un film che, almeno guardando alla prima puntata,
non ha quasi niente, a parte le grandi somme spese per metterlo su e,
certamente, non lo si ricorderà come un film “da cassetta” né, tantomeno, come
un kolossal.
* Al quale non si
sottrae neppure il figlio dell’eroe, che amoreggia con una giovane schiava
troiana, di cui è innamorato, e che, per giunta, è la stessa che svelerà
l’astuzia della madre. Ora, che io sappia – e mi piacerebbe se qualcuno mi
smentisse nel caso sbagli –, era a Roma non in Grecia che le giovani schiave
dovevano piegarsi anche alle voglie dei padroni, credo che, in una società
aristocratica, come quella protagonista del poema e come quella dei fruitori
dello stesso, credo abbastanza impensabile che un giovane principe s’innamori
seriamente di una schiava.
** Un esempio per
tutti: se Caterina Murino nei panni della sposa dell’eroe, benché un bel po’ –
e inverosimilmente rispetto al figlio – più giovane, ricorda molto da vicino la
Papas, che è autenticamente greca, le schiave troiane, invece, la cui presenza
è, per altro, inverosimile, perché, bottino di guerra, non potevano essere
arrivate senza Ulisse, mi sembrano vestite più da schiave romane della prima
età repubblicana che da schiave greche.
*** Omero chiama i
Greci “chitoni di bronzo” e “schinieri di bronzo”, proprio perché le corazze –
il “chitone” era la tunica maschile – e gli schinieri, i gambali che
proteggevano le gambe dalla caviglia fino al ginocchio, erano di questo metallo
e non, come sembrano nel film, di cuoio, come invece erano le corazze dei
legionari romani armati alla leggera.
**** Nome che,
peraltro, nel poema designa uno dei Proci, che, a quanto mi risulta, non è un
artista (l’aedo di corte, infatti, si chiama Demodoco).
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