Il cristiano in politica. Alcune considerazioni.
Cristo Re. |
A volte, mi è
capitato, leggendo sul web qui e là, di trovare articoli e post molto critici
nei confronti di un certo modo di essere Chiesa oggi: ecclesiastici, teologi e
semplici fedeli sembrano aver perso l'orientamento, confusi fra le varie
proposte del mondo contemporaneo (non sempre in linea con quello che dovrebbe
essere il sentire autentico del cattolico) e l'esigenza, reale e urgente, dell'esercizio
della misericordia e dell'incontro, una misericordia, però, che, come ci
insegna la Scrittura, dovrebbe essere accompagnata dalla verità (Sal. 84-85,
11). Ed è qui che, sempre e continuamente, ritorna la domanda di Pilato:
"Che cos'è la verità?".
Certo, Pilato la
verità (che era, poi, anche e soprattutto, "la Verità", quella con la
maiuscola) l'aveva davanti: per lui la verità era che al suo cospetto e al suo
giudizio era stato condotto l'Innocente per antonomasia. Aveva lui intuito qualcosa
di quel misterioso Imputato? Molti scrittori si sono lasciati affascinare da
quell'episodio evangelico e ne hanno enunciato la possibilità. Ma, a distanza
di più di duemila anni, non è possibile dire senza fantasticare un pochino. Il
dato reale, il dato sicuro, è che il procuratore romano aveva capito che
quell'uomo, di cui si chiedeva la morte per mezzo del sistema più infamante e
terribile, quello della crocifissione, era innocente, ma si piegò alla volontà
del Sinedrio e del popolo solo per paura; per paura e per un ignobile ricatto:
"Se liberi costui, non sei amico di Cesare" (Gv. 19, 12).
Che cosa vorrei dire
con questo discorso, che, apparentemente, non c'entra niente né con l'Europa né
con l'immigrazione? Vorrei richiamare l'attenzione sulla "verità" e
su ciò che credo – come cristiano – essere verità.
Raffaello Sanzio. Platone e Aristotele. Particolare della "Scuola di Atene". Stanze vaticane. |
Le religioni e le
filosofie di ogni tempo hanno sempre cercato di esaminare a fondo questo
problema. L'Antichità, dopo aver raggiunto i sublimi vertici della ricerca di
una verità assoluta, uguale per tutti e – udite, udite! – situata in qualche
spazio celeste (trascendente?) con Platone e Aristotele, ha prodotto
quell'autentico aborto della ragione che è lo Scetticismo, una scuola di
pensiero che portò con sé la novità che non era possibile per l'uomo né asserire
riguardo al reale e al vero né negare e che, quindi, bisognava arrivare alla conclusione
che meglio era starsene zitti. E questo dopo che altri avevano, in qualche
modo, chiamato "verità" o la ricerca del piacere o il raggiungimento
di uno stato di apatia dopo aver capito che, nell'Universo, è un continuo
morire e rigenerarsi esattamente come nella vita precedente, apatia che
contemplava, persino, la rimozione delle passioni e dei sentimenti. Passioni e
sentimenti che, in qualche modo, il Cristianesimo mette al centro della sua
"riflessione" (sia per accettarle come positivi e virtuosi sia per
respingerli come peccati o fonte di peccato). Dio, infatti, è Amore (1Gv. 4,
16), anzi di più, è Comunione che genera amore (lo Spirito Santo, la terza
Persona della SS. Trinità, nato dalla comunione d'amore del Padre e del
Figlio). È Gesù stesso che ci rivela l'ineffabile mistero della sua intima
unione con il Padre ("Io e il Padre siamo una cosa sola"; Gv. 10,
30); ed è Gesù stesso che desidera che i suoi discepoli imitino questa unità
(Gv. 17, 20-21, "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che
crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa;
come tu, Padre, sei in me e io in te…"). Ma il fine dell'unità dei
discepoli di Gesù è uno solo: "perché il mondo creda… (Ibidem). E qui sta
l'incaglio, perché, dal mio punto di vista, due domande sorgono spontanee: 1)
il mondo è disposto a credere? 2) l'unità dei cristiani, la nostra unità –
anche riferendoci soltanto a quella di noi cattolici, in quanto risulta chiaro
che, se parlassimo di ecumenismo, davvero non la finiremmo più –, è ancora
funzionale alla diffusione della Fede?
Il discorso si fa
lungo e complicato e, forse, sarebbe necessario l'aiuto di un teologo. Non
intendo, però, andare così in profondità; mi fermerò soltanto alle cose comuni
che sono sotto gli occhi di tutti.
Ciò da cui vorrei
cominciare è il posto che oggi occupano i cattolici nella politica. Papa
Francesco, riprendendo una frase del Beato Papa Paolo VI, ha ribadito l'opportunità
per il cristiano di far politica in quanto l'occuparsi del bene comune è la
forma più alta di carità. Recentemente, il 4 agosto, il quotidiano d'opinione
cattolico online "La Nuova Bussola Quotidiana" riportava un
intervento del giornalista Stefano Fontana su un'intervista di Repubblica al
nuovo Presidente della CEI Gualtiero Bassetti (Titolo dell'articolo: Nuova politica? Sì, ma qual è l'obiettivo?). Se l'assunto principale del cardinale
(cioè la necessità della presenza dei cattolici in politica) mi trova del tutto
d'accordo, devo dire che questo articolo, la totalità della realtà in cui
viviamo e che vediamo tutti i giorni e, devo riconoscere, la mia formazione di
cattolico ormai tendenzialmente "d'altri tempi" (qualcuno direbbe
"tradizionalista" o addirittura "fondamentalista") mi
portano a dubitare sulla "qualità" che avrebbero questi cattolici e
sul reale tipo di politica che porterebbero avanti. Nel Vangelo, il vecchio
Simeone dice di Gesù che sarà "Luce per illuminare le genti e Gloria del
suo popolo Israele", ma anche "Segno di contraddizione perché siano
svelati i pensieri di molti". E fu il Redentore stesso ad autodefinirsi
"Luce del mondo". In Lui, però, anche noi siamo "luce del mondo
(e "sale della terra")".
Non so voi, ma io
noto uno stretto legame fra la profezia di Simeone e l'autodefinizione dello
stesso Gesù. E, se, in Cristo, anche noi siamo luce e alter Christus (Tertulliano), non è profondamente vero che dovremmo
essere anche noi "luce" e "gloria" per gli altri e chiedere
che si faccia non quanto detto dal mondo, ma quanto detto dal Salvatore del
mondo? – CONTINUA
Nessun commento:
Posta un commento