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mercoledì 6 agosto 2008

Quegli inutili nascondigli di Giorgio Faletti.

L’ultima fatica di Giorgio Faletti è una raccolta di otto racconti un po’ gialli, un po’ noir e horror: «Pochi inutili nascondigli» (Baldini Castoldi Dalai, € 17, 90), una raccolta che, come recita il risvolto di copertina, rappresenta una serie di «… viaggi verso non si sa dove […] un lato in ombra che la luce della ragione ha timore di illuminare per paura di ritrovarsi sconfitta».

Marco Barison (“Una gomma e una matita”) attua la sua vendetta contro coloro che l’hanno rovinato – la moglie e l’amante di lei – per mezzo di una gomma e una matita che hanno il potere di cancellare dalla faccia della terra, e, nel caso di persone, di uccidere, qualsiasi oggetto venga disegnato; Greta Kliemann (“L’ultimo venerdì della signora Kliemann”) è una ricca tedesca che usa trascorrere con il marito le vacanze all’isola d’Elba. Durante il suo ultimo anno di vita – la stroncherà un infarto – cerca di nascondere agli altri, ma soprattutto a se stessa, la morte del suo amato Kurt, convivendo con un pupazzo a grandezza umana a lui somigliante; il prof. Claudio Marino (“Graffiti”), misantropo e, soprattutto, misogino, cerca di sfuggire ad un rapporto più personale con gli studenti e i colleghi – e le colleghe –, in particolare con Claudia Crivelli, che prova qualcosa per lui, e trova, invece, rifugio dalla giovinezza fino alla maturità nel sesso mercenario della coetanea Giovanna, in seguito nel “sogno” di una mai raggiunta “ragazza dal cappotto rosso”. Il rapporto – umiliante per lei, non completamente gratificante per lui – con la Crivelli (descritto con nauseante dovizia di particolari, degno pendant, quanto a violenza, della macabra “cancellazione” di Ivana, l’ex moglie del Barison nel racconto d’apertura) e l’assistenza, dall’interno del bagno, allo stupro, nel vano caldaie, di una studentessa, lo metteranno in condizione di scoprirsi insignificante e meschino (mentre, nella chiusa del racconto, cerca di raggiungere “la ragazza dal cappotto rosso” – che, a me, piace pensare nient’altro che un graffito murale – si fa piccolo, piccolo (si presuppone, per la vergogna: il rosso non è proprio di chi prova questo sentimento?); il vecchio agricoltore in pensione Dafarra (“Spugnole”) non vuole vendere il suo terreno, dove finge di andare a caccia e raccoglie quei funghi particolari chiamati comunemente “spugnole”, e quando gli speculatori gli fanno un’ennesima offerta, è la stessa amata terra a vendicarsi uccidendoli a sassate. Misterioso evento fantascientifico o, come trapela, da un discorso del vecchio una sua vendetta?

L’amore, la passione, l’odio, il rancore… i sentimenti forti, insomma, rendono gli uomini coraggiosi o vigliacchi, a seconda della tempra del loro carattere. Più incisivamente dimostrano quanto detto (che, in realtà, credo sotteso a tutti e otto i racconti) “La ragazza che guardava l’acqua”, in cui l’antropomorfizzato mostro del lago trova il coraggio di mostrarsi agli uomini (in particolare, alla ragazza del titolo) solo di fronte ad un episodio di angheria e violenza (una storia di coraggio contrapposta a quella di vigliaccheria del prof. Claudio Marino?) e “L’ospite d’onore”, in cui la fuga del divo Walter Celi dopo la morte, probabilmente per omicidio, di una collega americana nasconde torbidi segreti che non verranno mai alla luce, ma che forse l’amore sincero della nipote del paparazzo Riccardo collaborerà a purificare e a superare.

L’uomo, dunque, è un lupo per il suo simile (homo homini lupus insegnava già Thomas Hobbes). Nell’ultimo racconto, “Physique du rôle”, questo avviene alla lettera. Si tratta, infatti, della vendetta di un uomo-lupo defraudato dell’amore del suo compagno e della parte di licantropo in un film dell’orrore; un argomento in cui si mette in luce il lato bestiale di alcune passioni, il loro lato irrazionale («il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce» scriveva Blaise Pascal) e, forse, a-razionale (ma non è, in fondo, la stessa cosa?), un aspetto che la ragione non vuole riconoscere, perché non le appartiene, perché sono incapaci di raggiungere quell’altezza e quella nobiltà che le è propria. Solo l’amore può raggiungere – e spesso trascendere – la sublimità della ragione. E, infatti, solo Greta Kliemann, il mostro del lago e Sara di “L’ospite d’onore” saranno capaci di gesti incomprensibili agli occhi di chi li guarda e li considera.

Se è vero che i nascondigli dietro cui i protagonisti di queste storie vogliono celare le loro passioni torbide sono “inutili”, perché la verità viene sempre a galla, c’è sempre un qualcosa che rimane in interiore hominis (tanto è vero che molti racconti non disvelano interamente il mistero) e lo costringe a vivere in quella menzogna – apparente o reale che sia – che non può che portare il cuore a quel gesto, irrazionale quanto si vuole, ma profondamente vero e umano, di grattarsi sul casco quando prude la testa (“L’ospite d’onore”, p. 346), cioè di compiere gesti non sempre in linea con i reali bisogni.

Scrivere non è sempre facile, scrivere di sentimenti è assai difficile, interpretare e sgarbugliare matasse (il giallo e il noir o l’horror intendono fare questo soprattutto) è impresa per pochi eletti e la comprensione della psiche umana è qualcosa per palati fini. La visione del mondo falettiana (se esiste ancora una visione del mondo organica al di fuori delle metafisiche religiose o pretendenti tali in questo incipiente Ventunesimo secolo post-ideologico e se il nostro Autore ne ha una) non traspare organizzata in questi racconti che, tecnicamente, potrebbero essere definiti “bozzetti”, cioè vicende nate attorno a personaggi o a situazioni particolari (secondo la lezione di Stephen King di “On writing” o, per citare dei classici italiani, di Verga e Pirandello delle più grandi novelle), ma il pretesto di interpretare una realtà oscura qual è quella dell’inconscio frammenta e banalizza il dettato, ora uccidendo la suspense (come in “Una gomma e una matita”, dove l’autore delle sparizioni e degli omicidi è già rivelato con “l’antefatto” del reperimento degli strumenti da disegno e la scoperta, per mezzo della morte del gabbiano, del loro straordinario potere), ora creando in chi legge una serie di domande che, poi, non otterranno risposta (come in “L’ospite d’onore”, in cui il lettore continuerà anche dopo la fine della lettura a domandarsi chi sia l’uomo intravisto sul palco, se è un uomo in carne e ossa o un fantasma, se è l’autore dell’omicidio o se questo è stato commesso dallo stesso Celi e, infine, qual è il doppio segreto di quest’ultimo).

Naturalmente, come diceva Marcel Proust nel suo “Contro Sainte-Beuve”, l’opera letteraria può essere letta in mille modi (quanti sono i lettori), ma credo che i nascondigli creati dal Nostro non sono tanto inutili ai suoi personaggi, abbozzati e non terminati, caotici e quasi sempre psicotici, quanto piuttosto a celare una certa incapacità ad interpretare il senso della realtà, che tutti viviamo.

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